Sono tutti molto simili tra loro. La lunga barba copre il mento, il largo saio non da molti indizi sulla corporatura e il cappuccio alzato nasconde capelli e fronte. Ciò che distingue un monaco dall'altro è lo sguardo. Si guardano negli occhi per riconoscersi e per comunicare. E' un linguaggio fatto di sottilissimi movimenti di pupille e palpebre che non conosco, non capisco. In quanto psicologo sono abituato a riconoscere il tono della voce, a intuire la comunicazione oltre le parole, ma non riesco proprio a comprendere cosa quegli occhi stiano cercando di dirmi. Ho la sensazione che loro sappiano benissimo di essere reali o meno e il perché sono qua, ciò che non sanno è perché io non li capisco, perché i loro occhi a me sono muti. Li osservo passeggiando per la casa. Ora non ci sono sguardi da decifrare: è notte, stanno dormendo. Ieri, sotto suggerimento di Alexy Yllich Boborsky Zumirhivonov ho costruito in giardino una latrina per i loro bisogni. Avrei voluto farla costruire a loro, forse così avrei avuto un'indicazione in più sulla loro consistenza, ma quando ne ho preso uno in disparte per comunicarglielo mi è mancata la forza. Strano a dirsi, ma ancora una volta mi sentivo sgarbato. Comunque poco male, ciò che conta è che domani mattina tutti gli amanuensi, reali o immaginari che siano, dovrebbero recarsi lì. Abbiamo almeno risolto un problema, il più urgente. Sto risalendo la piramide di Maslow.
Passeggio silenzioso tra loro, attento a non urtarli, verso la cucina; da lì, infatti, proviene il tiepido bagliore che traccia il mio sentiero. Quando giungo vedo un curvo monaco poggiato sul piano adiacente al lavabo. Sta scrivendo su una pergamena, copiando da un libro appoggiato sui fornelli. Il libro è illuminato dalla fievole luce della lampadina destinata al piano cottura, una luce tanto bassa da non disturbare minimamente i suoi compagni addormentati in cucina. Avvicinandomi mi passano per la mente immagini di Fahrenheit 451 e per un attimo sento il desiderio di accendere quei fornelli, forse solo per vedere l'effetto che farebbe sui monaci. Reagirebbero? Andrebbero su tutte le furie? O forse aprirebbero solo gli occhi per qualche istante per poi richiuderli, sereni come se niente fosse successo? Il libro in questione è una copia di La valigia di mio padre, di Orhan Pamuk. Calmo i miei istinti incendiari e decido piuttosto di prendere il mio computer e con pazienza, appoggiato sul piano dall'altra parte dei fornelli, ricopiare anche io qualche passo del saggio in questione. Mettermi nei loro panni dovrebbe aiutarmi a capirli; almeno spero.
[...] Uno scrittore è colui che passa anni alla paziente ricerca dell'essere distinto che porta dentro di sé e del mondo che lo rende la persona che è: quando parlo di scrittura, la prima cosa che mi viene in mente non è un romanzo, una poesia o la tradizione letteraria, ma è una persona che si chiude in una stanza, si siede a un tavolo e si ripiega in se stessa e tra le proprie ombre costruisce un mondo nuovo con le parole. Quest'uomo (o questa donna) può usare la macchina da scrivere, può approfittare dell'aiuto di un computer, oppure può scrivere come me, per trent'anni, con una penna stilografica e mentre scrivo può bere caffè, tè e fumare sigarette. Qualche volta può alzarsi dal tavolo e può guardare fuori, i bambini che giocano per la strada, gli alberi o un panorama, se è fortunato, oppure un muro cieco. Può scrivere poesie, drammi oppure romanzi come me. Tutte queste differenze passano in secondo piano, dopo il vero lavoro, che è quello di sedersi al tavolo e di chiudersi pazientemente in se stessi. Scrivere è trasmettere questo sguardo interiore alle parole, ricercare un nuovo mondo nella propria mente con pazienza, ostinazione e gioia. [...] Secondo me il segreto dello scrittore non sta nell'ispirazione, che arriva da fonti ignote, ma nella sua ostinazione e nella sua pazienza. “Scavare un pozzo con un ago” è un bel modo di dire turco per descrivere il lavoro dello scrittore. [...]