Di tutte le vicissitudini che mi sono fin'ora capitate questa è di gran lunga la più assurda ed improbabile. Poco tempo fa, mentre mi districavo tra pensieri sul copyright e sull'editoria, suonarono alla porta della mia umile casetta. L'inatteso visitatore si rivelò essere un vecchio monaco amanuense venuto a passare i suoi ultimi inverni presso di me. Colto alla sprovvista non seppi come obiettare a tale pretesa e di lì a poco tempo le mie stanze si riempirono di curvi monaci scriventi. Ora, sebbene io abbia consapevolezza che queste austere figure probabilmente non siano altro che un parto della mia mente, tuttavia mi riterrei ugualmente sgarbato a suggerire loro di tornare nella loro non esistenza. Perciò mi ritrovo, miei cari amici, nella spiacevole situazione di chi per vedere la TV sul divano la sera deve concordare il programma con un'intero monastero.

sabato 17 novembre 2007

F. ama parlare con gli altri

Aspetta. Ssh! Hai sentito niente?
si volta di scatto verso di me
Lo senti? Lo senti? Sta sussurrando. Ssh! Ascolta... Ce l'ha con me.
No, niente di particolare, che vuoi che ti dica? S'è fissato.
sorride
Mi ha visto in un bar qualche tempo fa, ero solo e si è seduto accanto a me. Abbiamo parlato per più di due ore. Simpatico, non c'è che dire, mi ha anche offerto da bere. Poi ci siamo salutati.
cammina
si allontana, lo seguo

La notte mi sveglio e me lo ritrovo a gambe incrociate in fondo al letto. Doveva essere qualcosa tipo un angelo perché aveva tutto un piumaggio di ali che non ti dico. Le spalanca che dovevi vederlo, una meraviglia, quasi non ci stavano nella stanza.
F. allarga le braccia e le muove su e giù
A quel punto uno pensa anche di essere morto. Si fa un segno della croce e buonanotte; vediamo un po' che c'è nell'aldilà. Ma quello, credici, se ne sta zitto per più di un'ora a fissarmi dall'altra parte del letto. Immobile, tutto impettito, con quello sguardo vuoto come un deficiente.
Si guarda in giro, nessuno l'ha sentito
Ora, quello che voglio dire: uno mica fa tutta sta apparizione per starsene in silenzio, no? E invece niente. Quello non rispondeva. Tanto che dopo un po' mi dico: che non sia questo l'aldilà? Boh?
incrociamo D., si salutano
Al chè mi alzo, vado a fare un po' di acqua al cesso, tanto per farmi un'idea. Oh! Tutto normale. Scrollata, sciacquone, tutte cose che secondo me in paradiso non ci stanno mica. Poi torno in camera e lo trovo ancora lì. Preciso dove l'avevo lasciato. O buon Dio. Mi fissa. Roba che gli è andata anche bene che era un angelo perché io quella gente che ti guarda così mica la sopporto poi tanto.
sorrido
E no. Tu ora mi vedi qua tutto cheto, ma guarda che i miei casini io li ho fatti. Non che mi mettessi a picchiare un angelo, però. Anche perché la fede quando ero giovane non ce l'avevo tanto, ma il rispetto, quello sì. Lo capivo che altri ci credevano.
e quindi?
E quindi niente. Cosa potevo fare? Mi sono sdraiato di nuovo, con le gambe un po' rannicchiate, e mi sono riaddormentato. Boh! Quello non parlava...
F. si siede su una panchina in giardino
io con lui

Che poi chissà quanti calci gli ho tirato durante la notte? Mi dispiace, io mi muovo sempre tanto nel sonno. Ma scusami, ti sto annoiando, vengo al dunque. La mattina, mentre mi stavo alzando per andare a fare colazione, quello mi parla. Com'è che ha detto? Qualcosa tipo: “E' giunto il tuo momento Franco. Il Signore ti vuole con Sé. Mi ha mandato qua affinché io ti conduca a Lui”. Tutto con un tono solenne. Dovevi sentirlo.
scuote le spalle
Gente strana gli angeli. Me lo diceva prima e si risparmiava di stare tutta la notte seduto senza neanche appoggiare la schiena. Io non sarei sopravvissuto, che già soffro di reumatismi. Comunque, stavo lì pronto a farmi il segno della croce, tanto per convenzione, quando il tizio sbatte le ali, si alza in volo fino al soffitto e mi dice: “Ma tu, Franco, in vita sei stato buono. Perciò ti concederò ancora qualche giorno. Questo tempo dovrai usarlo per salutare le persone a te care e congedarti dal mondo”
e l'hai fatto?
Col cazzo! Scusami il termine. Ma metti che quello abbia ragione e quando saluto tutti torna e mi porta via. Oh! Io il rischio non lo corro. Così sono uscito subito di casa e senza passare dal bar sono venuto dritto dritto qua. Ssh! Senti?
non sento
Continua a dirmi che mi manca poco tempo, che prestò morirò. Palle. Sono ormai anni che va avanti con questa tiritera: “La tua ora sta per arrivare”; “Sto venendo a prenderti”; “Preparati ad abbandonare tutto”. Ormai non ci crede più nessuno.
forse la storia del destino è uno stratagemma di un nostro fantasma per convincere gli altri a seguirlo
O forse lassù non sono tanto furbi.

venerdì 9 novembre 2007

Titolo: Baricco


Svolgimento

Un po' di tempo fa mi capitò tra le mani un'intervista a Pietro Citati. La mia attenzione fu subito catturata dall'ultima domanda: "Qual'è secondo lei attualmente il peggior scrittore?". La risposta fu secca: Baricco. Il critico, per altro noto per la sua mancanza di mezze misure, disse che lo scrittore torinese aveva una pessima prosa, una sintassi spesso scorretta e che dubitava anche della sua conoscenza della lingua. Io molto tempo addietro, quando ancora non era conosciuto da nessuno, consideravo il giovane autore di Castelli di Rabbia e di Oceano Mare un esempio da seguire. Il suo modo di scrivere era fresco e spontaneo, innovativo direi. Non aveva assolutamente l'eleganza degli inglesi o la forza espressiva dei russi, ma lo trovavo molto italiano. Ora di questa mia definizione non ricordo neanche più il motivo e d'altronde ben presto, ben prima dell'intervista a Citati, il mio amore per Baricco si era dissolto. A logorarlo fu certo la sua fama, la mia invidia di scrittore non emerso non mi permette di stimare alcun collega di successo, almeno che non sia morto. Anche il fatto che non mi piacessero un granché i suoi libri poi non ha aiutato. Scritti bene, sì, ma per il resto... Eppure quelle parole di Citati per me erano una pugnalata, non riuscivo a staccare gli occhi dalle righe del giornale. Mi si annebbiava la vista e mi sentivo ritornare sui banchi di scuola. Tra le mani avevo un protocollo con un grande 2 scritto in rosso sulla prima pagina. Quel tema mi era costato quattro ora di sudore, perché non è facile scrivere in maniera comprensibile un flusso di pensiero, perché non è facile fare a meno della punteggiatura. Ma quel tema era costato fatica anche al professore perché non è facile aggiungere tutta la punteggiatura ad un testo scritto per non averla. Si doveva essere sforzato parecchio, il voto ne era una buona testimonianza. Ma perché l'aveva fatto? Glielo chiesi. Gli chiesi perché una scrittura del genere non poteva essere utilizzata in un tema delle superiori.

-Come faccio a correggerti la punteggiatura- mi rispose -se non la metti?-

Il giorno che lessi l'intervista a Pietro Citati mi risentii vicino a Baricco. In fin dei conti bastava un grande 2 scritto in rosso sulla prima pagina a fare di
Barnum un bel libro.

Ora a ricordare il tutto penso che Baricco non sia questo grande sperimentatore, ma che almeno ci provi. Che forse se dobbiamo trovare l'autore che più ci ha insegnato la purificazione dalle regole grammaticali e sintattiche dobbiamo scomodare Kerouac. Che ci sono diversi esempi di scrittura veramente creativa, ma che in generale la letteratura rimane un campo in cui regna la tradizione. Che rimarrò sempre affezionato a Baricco per quello che per me rappresenta. Che tutto sommato non mi sento baricchiano, ma mi fa comunque piacere che altri lo pensino. Che mi fa ancora più piacere l'originale paragone con Benni e che vorrei riuscire a scrivere come lui. Che non lo so ancora fare. Che in realtà punto a far meglio. E altro.

lunedì 5 novembre 2007

Del perdere l'identità: il risveglio di J.

Raccontami di lui.
Dimmi perché hai aspettato tutto questo tempo.
Ma non potrei capire, il tuo sguardo non lo conosco.

-Tieni questa fede, portargliela. Digli che fra quarantotto ore me ne andrò e non mi rivedrà mai più; lo so, non è la prima volta che faccio questa promessa, ma sarà l'ultima.

Siete sposati. E non da tanto, leggo sulla fede.
Alla fine ce l'aveva fatta. Quell'interminabile notte era finita.
Non era stato semplice lasciare le sicurezze del giorno, non può esserlo mai. Come si fa ad abbandonare tutto ciò che si sa di sé per tuffarsi nell'ignoto del sogno? Ogni volta che chiudiamo gli occhi con un certo timore preghiamo Dio, o chi per Lui, di far risvegliare nel letto la stessa persona che si è addormentata. La paura del buio che avevamo da bambini non è mai passata. Accendiamo più luci possibili e preghiamo che di notte non si spengano, perché sappiamo che lì dove arriva la nostra scienza non si può nascondere il mostro che ci condurrà alla morte. È per questo che accumuliamo i piccoli tasselli della nostra identità come i libri sui scaffali o i pezzi di arredamento della nostra casetta ideale. Li difendiamo. Sono gli orsacchiotti che la notte combattono contro l'uomo nero, contro l'ignoto. Il comunismo ci dice di non essere nessuno, la proprietà privata di essere sempre gli stessi. Sogno una terza via che suggerisca il possesso e la perdita. Essere troppo affezionati alla nascita biologica è da stupidi. Portarsi in giro un fardello pluridecennale da masochisti. Sono sicuro che se un giorno riuscissi a dimenticarmi troverei il coraggio di dire a Susan che Jack è un debole, uno che ha lasciato perdere, che non ha retto la tensione di vivere liberamente. Quel giorno mi proporrei io al suo posto dicendole che mi merita, che finalmente mi ha trovato. Ma se questi monaci sono un sogno, allora io mi sono appena addormentato. Il risveglio è lontano.

Passeggio la notte in strade vene del mio corpo, mischio il mio sangue con l’uomo che abita questo silenzio per poter urlare: un’imprecazione è quel tanto che basta per concedermi un perdono, mi accetterò?
Passeggio la notte e nessuno mi è più estraneo, nel silenzio gli altri han la mia voce.

Solo il tempo di un ultimo saluto.

-Siamo giunti alla solitudine, cara, qua ci dividiamo. L’appuntamento è fissato a domani mattina ma nessuno di noi ci pensi troppo. Chi di noi riuscirà a svegliarsi senza odiarsi? Domani saremo estranei, neanche ti incontrerò-
-Non andare. Non lasciarmi. Tutto ciò che non sei stato, caro, questa notte ancora non sarai-
-Bestemmierò-
-Non ti basterà, in troppi e per troppo tempo l’han già fatto, non ti basterà-
-Ucciderò-
-Non ti servirà, urleranno solo più forte mentre li massacrerai, non ti servirà-
-In fondo, cara, tutto ciò che non sono stato non ho mai voluto essere-
-Sì, è vero, e di ciò mai riuscirai a perdonarti-

Il rumore della giornata scompare se lo si riascolta di notte, il ricordo ha esperienza, non si lascia distrarre, ogni parola pronunciata ora è un fastidioso eco.

Alla fine del viale mi ferma un uomo con un braccio teso, il palmo aperto contiene due occhi, l’uomo è cieco.
-Erano diversi- mi dice -in quello di destra la palpebra pendeva maggiormente, ho dovuto farlo-
L’uomo domani mattina sarà un mendicante, io ne avrò compassione e gli farò l’elemosina, l’uomo mi ringrazierà, mi raccomanderà a Dio e lo benedirà, ma Dio qua non c’entra proprio niente schifoso mendicante, i soldi te li sto dando io, io ti sto salvando dalla fame, non lui.

Il mendicante sparisce e al suo posto compare la mia cara, rossovestita, bellissima.
Mi parla: -Girando a sinistra, percorrendo cento metri, sulla destra c’è una casa con una lanterna rossa appesa ad ogni finestra, se vuoi conforto vai lì-
-E te?-
- Io andrò in chiesa a pregare perché il mio uomo ritorni da me-
Dio non mi terrà lontano da quella casa.
Giro a sinistra, percorro cento metri, sulla destra entro in una casa con una lanterna rossa appesa ad ogni finestra. Dopo due passi mi ferma un uomo, la sua mano sul mio petto:
-Ruba qualcosa e sentirai un’ebbrezza al momento del furto per la coscienza della tua vigliaccheria; non sarà l’atto vile che amerai, ma la coscienza tormentosa della tua bassezza-
-Demonio, vai via! Lasciami entrare!-
-E perché dovrei?-
-Ho dei soldi, guarda, ho ancora un sacco di soldi-
-E lei, quando avrai perso tutto ciò che hai ti amerà ancora?-
-Lei non ama i miei soldi-
-Ah! Entra e lo scoprirai-
L’uomo ride, l’uomo non sa che lei sta pregando per me, l’uomo però sembra sapere cosa di me lei ama, io entrerò e magari lo scoprirò.

Corpi nudi intorno a me si aggrovigliano ritmicamente, lei, Susan, mi tende le braccia di un corpo così nudo da non poter accettare, da voler spogliare. Non può essere tutto qua. La bocca è leggermente aperta in un volto altrimenti vuoto. La passione, la passione mi fa lentamente scivolare in un passivo consenso al suo desiderio, in un ritmo che sa di morte, in una ripetizione che sa di mancanza, di promesse infrante. Agire mi disgusta, ma l’inerzia è ipnotica e non sono goffo, esitante e maldestro come al solito, sono predatore e potente, sono un animale. Cerco Susan nel deserto volto, ma in lei vedo una cadenzata e bestiale metamorfosi, il nostro amore ha i lineamenti del mostro, rimane solo da decidere chi di noi faccia da specchio all’altro. Non posso accettarlo, dovrò ucciderla al termine della sua trasformazione. Ormai mi è tutto chiaro, solo così lei sarà punita, sacrificata e io diventerò peccatore, il più basso degli uomini, solo così dolci tenebre mi avvolgeranno e proteggeranno per tutta la vita. Rinnegato, all’ombra di Dio, rinascerò dal fondo. Rivoglio il mio peccato originale, la sicurezza di un posto prenotato in uno dei tanti gironi infernali; questo è il mio battesimo al contrario.

Ma esito.

Esito.

-Cosa aspetti?- mi incita l’essere deforme che tengo tra le mani.

Cosa aspetto? Forse un angelo che fermi la mano di Abramo nell’atto di sacrificare suo figlio.
Forse una tua risata a ricordarmi quanto sono impacciato.
Cosa aspetto?
Di imparare da te il mio corpo, di sentirlo desiderato, di poter credere che si possa amare l’altro, il diverso.

Aspetto qualcuno a cui gettare questa mia identità perché io non ce la faccio più a proteggerla.

-Susan, per quanto ancora dovremo abbassarci, ridurci alla ricerca di un comune denominatore?-.
-Stupido, per tutto il tempo in cui difenderai quel tuo straccio di identità- risponde sfumando il tutto davanti a me.

Il sole pian piano brucia la cortina di sonno faticosamente eretta, vedo la luce ed è nuovamente la prima volta. Accanto a me lei, la mia cara, Susan. La bacio sulle labbra ancora serrate per cogliere l’ultimo sapore dei suoi sogni. I suoi occhi troppo a lungo celati da gelose palpebre sbocciano a dimostrazione di unicità, è alba anche sul suo viso e rosee colline formano le guance seguendo l’arricciarsi del suo naso. Il mondo tace aspettando che la sua voce inauguri la giornata:
-Chi sei?- mi chiede
-Oggi sono tuo marito-
-Solo oggi?- aggiunge sorridendo con un pizzico di malizia
-Ma no, sai com’è, se Dio vuole per sempre-
-Ssch allora. Fai piano e vedrai che Lui non se ne accorgerà-

sabato 27 ottobre 2007

Del perdere l'identità: J.

Ho trovato un quaderno, un diario, dietro le scatole di pasta in dispensa. La discrezione non è mai stata il mio forte, poi forse è anche casa mia. Un'iniziale sul retro copertina: J. Apro una pagina a caso.

Cosa ci sarebbe senza tutto ciò? Se non fossi uno studente di lettere, se non fossi il figlio di mio padre, se non fossi ricco, cosa sarei? Offro champagne alle donne e non riesco a scoparle; loro però escono contente dalla mia stanza. Mi cercano. Sono tenero, divertente. Le faccio sentire importanti. Io sono importante.
La spoglio mentre è ubriaca e la sdraio sul letto: è un'illusione, non saprei come toccarla. Sognerà ciò che non sono. Vorrei farlo anch'io. Humbert drogava il suo piccolo amore per fingere di non possederla, io drogo le mie lolite per poter fingere di amarle.

Ieri è stato bellissimo. Sei stato formidabile”...ho avuto il coraggio di bere direttamente dalla bottiglia, niente di più.
Mi richiamerai?”...lo farò.
Ma sì, almeno tu sii felice. Vai, ti richiamerò, ti offrirò la migliore bottiglia che tu abbia mai bevuto. E ti parlerò di arte, letteratura, scienza, ti parlerò anche dell'amore. Sarò divertente: un genio della conversazione. E' tutto ciò che so fare quello che non vorrei più fare. Si sta per svegliare. Le bacerò la schiena, lei mi bacerà la fronte. Per quel che vale.

-Tesoro...
-Dormivi come un angelo.
-Ma io sono un angelo.
-No, gli angeli non hanno sesso. Te sei una ninfa. Sei stata creata per suscitare amore. O qualcosa del genere.
-E te sei un vero stallone.
-Sì...lo so, un vero stallone.
-Sei stato formidabile questa notte.
-Ti richiamerò?
-Lo spero proprio, siamo stati bene insieme, no?
Jack la aiuta a rivestirsi prima di aprire il cassetto per prendere il portafoglio; vuole fare un regalo a quella ragazza così inutilmente gentile. Scosta la scatola di profilattici ancora sigillata e sfila dal cuoio cinquanta euro.
La mano è stanca, il gesto automatico, ma incompleto. La voce di lei lo ferma e lo desta dal torpore
-Tesoro, quelli non bastano-
Di colpo le costose bottiglie sono vuoti abbandonati, i suoi vestiti puzzano di alcol e la suite è una stanza d'hotel.
Jack sfila un'altra banconota da cinquanta dal portafoglio; la posa tra le cicche della nottata.
-E' tutto quello che ho.
-Non ti puoi più permettere questi piaceri, bello.
-Neanche te, troia.
Bussano alla porta. Un ometto in divisa vuole prostrarsi ai piedi di Jack, ma questa volta lui non glielo permette.
-Mentre ti levi dai coglioni di a quello stronzo fuori che ho appena speso con una puttana tutti i soldi che avevo. Ora sono io che mi posso permettere il lusso di parlargli senza guardarlo negli occhi.

martedì 23 ottobre 2007

"Il classico tipo bello e maledetto, cosa che fa impazzire le donne da che mondo è mondo"

Sveglio per tutta la notte Jack fissa i suoi ricordi, li sfida con lo sguardo, abbassa la testa sconfitto, la rialza, sfida i suoi ricordi, li fissa nello sguardo. Io passeggio inquieto vicino alla finestra che da sulla strada. Laggiù una donna sotto un lampione aspetta uno sguardo; non il mio. Sono tre le sigarette che distanziano la speranza dalla delusione, ma ci vuole un intero pacchetto per smettere di piangere. Giusto il tempo di finirle, le lacrime, o poco più. Poi c'è la nebbia e non sai più se tornerà quel giardino, e non sai più volere che torni. Nella nebbia sono cieco anch'io: non me lo perdono. Non era forse il mio sguardo a farti ancora bella mentre il trucco ti scivolava sul viso? L'aria è densa delle parole che non riesci a dire. “Ehi straniero, credevo non tornassi più. Ho pensato: finalmente glielo hanno storto il collo a quel bastardo”. Parole che sarebbero suonate dolci. Lui ti avrebbe baciato. Anche nella nebbia. Anche senza vederti. Stretta a lui, anche senza più lacrime avresti pianto di felicità.

venerdì 19 ottobre 2007

J.

C'è Deezzle. E poi c'è J. J., un giocatore, baro, avido, testa di cane, figlio di puttana: in gioventù è stato tutto ciò. J. volteggiava il coltello aspettando la volta che lo avrebbe afferrato dalla parte sbagliata. Poteva toccare a lui quella pallottola lasciata cadere dal ponte la sera che fu il primo a sparare . Ma il giocatore sente il momento, lo fiuta; sa quando stare nascosto e quando farsi beccare. J. andava verso la gogna con la sola preoccupazione di essere il profumo del whisky nel puzzo di fumo di qualche pessimo locale. Sarebbe morto per mano dell'unica prostituta che aveva veramente amato; sarebbe morto su un palco, facendo l'occhiolino e dicendo: "ci vediamo...". J. Jack. Le cose non vanno mai come si progettano. Anche quel tuo mazzo truccato aveva un punto debole.

Ancora un colpetto di vento e quel foglio si staccherà e di vento non ne manca oggi, oggi che su quella precaria locandina per la prima volta il bambino vede il volto di Jack Finn: ladro, baro, temuto assassino, domani verrà impiccato nella piazza maggiore, tutti invitati. Quel domani è oggi, ma il bambino non sa leggere e quella locandina presto, presto il vento se la porterà via.

“Che i cuori si strazino davanti al condannato
Oggi il baro va alla morte
Che possa dire di essere stato amato

Oggi vedrete un figlio di Dio impiccato
Un uomo che incontrerà l’amara sorte
Che tu possa piangerlo cuore disperato”


In piazza il bambino non è solo, in piazza c’è la mamma che lo tira per il braccio, c’è un uomo con un cappuccio in testa, ce n’è uno che urla frasi e tutti l’ascoltano, uno che vende noccioline e mele caramellate e uno che chiede l’elemosina, in piazza c’è gente che piange, gente che ride, gente che mangia, gente che per tre soldi si fa fare una foto con il condannato, in piazza c’è il condannato.

“Dannato. Dannato Jack, che la tua anima giaccia all’inferno per mille volte mille anni, finalmente ti hanno beccato, finalmente ti hanno trovato, dannato baro, mi devi la vita e oggi me la darai”

Il sindaco sale ora sul palco; è un ometto basso di statura, vestito in maniera vistosamente elegante con una vecchia fascia sul petto sulla quale si leggono bene le lettere che formano la parola “MAJOR” cucite a mano e un po’ meno bene quelle che formano la parola “Miss Acientville” in trasparenza. Prende la parola:

Signore e signori benvenuti in ciò che è l’orgoglio della nostra piccola ma preziosa cittadina: la piazza maggiore”.

Qualcuno nell’accalcata platea sorride, probabilmente pensando ad un’ipotetica piazza minore, ma Acientville ha una strada, una chiesa, un negozio, una locanda e una piazza, non si sa di cosa ma tutto è maggiore.
Oggi -continua il sindaco- siamo qui per celebrare una vittoria della civiltà sulla barbaria e sulla scostumatezza, oggi, dopo regolare processo, impiccheremo Jack il baro”.

“Dannato. Dannato Jack, non è uno scherzo, lo vuoi capire? Oggi la corda che da sempre hai tirato si stringerà intorno a te e sarà l’ultima volta. Eh già, ma è solo un attimo e a te gli attimi piacciono, tu vai pazzo per gli attimi. Sei un giocatore. Ma questa volta perderai. Lo sai questo? Allora perché ancora ridi?”

Jack non sta ridendo e con faccia greve viene tirato da uno sgherro tramite una corda legata alle sue mani congiunte. Il boia gli appoggia il cappio intorno al collo e si dirige verso la leva per aprire la botola sotto i condannati piedi. Il sindaco alza il braccio, quando l’abbasserà gli farà eco la leva.

“Dannato. Dannato Jack. Paradiso o inferno, questo è ciò che ti meriti, l’eternità. Non ti spaventa? Dovresti piangere in preda alla disperazione, perché ancora ridi? Che serve andarsene con stile? Non sei un salvatore, guardati intorno, niente ladroni, sei solo, non ti stai sacrificando, cazzo! Ma questo lo sai. Sai di non essere nessuno, eppure ridi.”

Il sindaco cerca di vedere l’ora, certe cose van fatte con precisione, ma l’orologio è sul braccio alzato. Si guarda in giro, ma non c’è soccorso, quando tirare giù il braccio? Per certe cose occorre precisione. Una donna urla e piange forte.
A morte, a morte” gridano un gruppo di signore.
No, non fatelo” la donna disperata.
Pianto di bimbi piccoli, una ventata, la precaria locandina si stacca e volteggia tre volte prima di toccare il suolo; il bambino, che non aveva mai distolto gli occhi da essa lo nota con soddisfazione.

Non fatelo vi prego, è innocente, è mio figlio”
A morte” e le voci aumentano “A morte, a morte”, le voci sono un coro funebre: “A morte, a morte, a morte”.
Il braccio cala come una mannaia sulla testa del condannato, il boia osserva il gesto con sottile timore fino a quando i suoi occhi si spostano con solenne compostezza fino alla leva. La leva. La mano stringe forte e poi come morta molla e il boia guarda fisso il sindaco.

Lo so, sì, lascia stare, è colpa mia, scusate, ma questo fatto dell’ora mi ha un po’ distratto. Avrei dovuto mettere l’orologio sull’altro braccio” dice costernato l’ometto guardando la folla come per scusarsi con tutta la cittadinanza.
Eppure questa volta sembrava tutto apposto, c’era il boia, lo sgherro, la folla inferocita e anche la madre. Ci ho messo l’intera giornata per convincerla quella!” dice uno dalle prime file.
E il poeta -aggiunge uno dal fondo- anche il poeta c’era”
Ah, lasciatelo stare quello -sbotta il sindaco come risorgendo dallo sconforto- Cosa vuol dire “che tu possa piangerlo cuore disperato“? Non riesci proprio a mettere insieme due versi solenni?”
E…ci sarebbe anche la cosa delle foto, a me non piace, e un po’ inusuale” interviene radunando tutto il coraggio il giovane tutore della legge.
Si, hai ragione David. Però se vogliamo dirla tutta non è che tu fossi poi particolarmente convincente. Ho visto sgherri ben più feroci” gli risponde un sindaco che ormai aveva ritrovato tutta la sua verve.
Al che tutti i presenti cominciano a commentare nel disordine e fracasso più completo questo nuovo fallimento:

E’ mai possibile che non si riesca neanche ad impiccare un uomo?”
Chi mai dovrebbe mangiare una mela caramellata durante un‘esecuzione?”
Cosa succederebbe allora se fosse innocente?”
E dire che oggi Jack stava andando a morire con uno stile!”
E già! Senza ridere e senza piangere, composto, finalmente perfetto, peccato, davvero peccato, mi dispiace per lui”.
Jack, nessuno aveva osato anche solo rivolgergli lo sguardo dopo l’accaduto. Lui, dal canto suo, appena il boia l’aveva liberato dalla corda, si era inginocchiato e fissando il suolo di legno pensava quasi mormorando:

“Dannato. Dannato Jack. Che ti succede? Non ridi più? Finalmente abbiamo scoperto di cosa hai paura. Hai paura Jack. Hai paura.”

Di colpo quella corda intorno alle mani stringeva in maniera insopportabile.

Che succede Jack? L’avevi trovato divertente ieri? “Guarda questi che buffi”avevi pensato? Ma guardati te, ora, in ginocchio. Sei te che mi fai ridere. Sei te il buffo.”

Jack si stava vistosamente dimenando, urlava e cercava di sciogliere il laccio che gli cingeva le mani.

Un giocatore senza carte, che bel vedere!”

Jack urla, piange e urla, ma in pochi lo notano e ancor in meno si preoccupano. Solo il sindaco prova per un po’ a calmarlo, per poi dare l’ordine a uno sgherro ora molto più convincente di riportarlo in carcere.
“Guarda Jack, non lo vedo bene, che gli sarà successo?” “Boh, speriamo che si riprenda per domani, sarebbe un vero peccato altrimenti”.
La piazza sfolla, un po’ di nebbia scende su Acientville. Il bambino tirato stancamente dalla madre per un braccio è l’ultimo a voltarsi, appena in tempo per notare un uomo appendere un foglio al muro: Jack Finn, ladro, baro, temuto assassino, domani verrà impiccato nella piazza maggiore, tutti invitati.


Trascini il saio da una parte all'altra del giardino con in mano un libro di salmi. Saresti pronto a scommettere che conosci quel libro meglio di chiunque altro. Saresti pronto a scommettere, ma ormai non lo fai più.

lunedì 15 ottobre 2007

D.

Non tutti, ma qualcuno ora riesco a distinguerlo dagli altri. Non tutti, ma qualcuno...
C'è D. per esempio. Non so il suo vero nome, non so come gli altri lo chiamino, ma quando guardo il gruppo riunito sento di poterlo indicare con una buona precisione. D. possiede, nascosta sotto il saio e bloccata da un cordone un po' più stretto del dovuto, una fiaschetta. Se si presta attenzione alla veste di D. quando c'è molto sole si può notare un piccolo rigonfiamento a forma di parallelepipedo sul lato sinistro e un'aderenza eccessiva all'altezza della pancia. Probabilmente D. è anche un po' più grassoccio dei suoi Fratelli. Non deve avere lo stesso stato di forma degli altri perché appena può si siede, tira il fiato, con una mano si sfiora il lato sinistro dell'abito e sospira nuovamente. Ieri l'ho visto allontanarsi dagli altri, sedersi sotto l'abete e tirare fuori dal saio il suo piccolo tesoro. L'ha fissato per una buona mezz'oretta; immobile lui, immobile la fiaschetta. Poi, quando ha sentito dei passi, l'ha messa nuovamente sotto l'abito e si è alzato per salutare il monaco che era venuto a chiamarlo. Ha fatto qualche passo dietro di lui, come per seguirlo verso gli altri, poi si è fermato e con un movimento rapidissimo ha estratto la fiaschetta, ne ha bevuto un goccio e ha rinascosto il tutto senza che il suo compagno notasse niente.
Non ho ancora capito se D. sia più felice o più triste degli altri, solo mi sembra un po' diverso.
Ieri sera, mentre erano tutti inginocchiati in cerchio a pregare, sento un lieve rumore metallico: la fiaschetta era caduta. Vedo D. arrossire, portare la mano sinistra a contatto con il saio deformato e spingere il piccolo recipiente sotto il proprio ginocchio. D. ieri sera è stato l'ultimo a rialzarsi e ad abbandonare la zona di preghiera. E' rimasto lì fino alle prime ore della notte, ben oltre l'orario previsto, ben oltre i suoi compagni.

Questa mattina ho visto D. trascrivere queste parole dai Canti di Leopardi:

Dolcissimo, possente
Dominator di mia profonda mente;
Terribile, ma caro
Dono del ciel; consorte
Ai lugubri miei giorni,
Pensier che innanzi a me si spesso torni.

Non tutti, ma qualcuno ora riesco a distinguerlo dagli altri.

P.S. W la natura!

martedì 9 ottobre 2007

Sull'Edipo. Quando da fallo sono diventato ometto.

Si è parlato di Edipo e di legge del padre. So che siete personcine colte e sapete tutti cos'è il complesso d'Edipo, ma fatemi comunque fare una precisazione su quello che è lo stadio dell'Edipo secondo Lacan.
Riporto dalla garzantina di psicologia:

Abbiamo un'articolazione in tre tempi: nel primo il bambino desidera solo le cure della madre, vuol essere tutto per lei, ovvero il completamento di ciò che le manca: il fallo; nel secondo abbiamo l'intervento del padre che priva il bambino dell'oggeto del suo desiderio e la madre del suo completamento fallico: in questa fase il bambino incontra la Legge del Padre e il suo Interdetto; nel terzo, se il bambino accede al Nome del Padre o metafora paterna che coincide con l'assunzione del padre a livello simbolico, il bambino si identifica con il padre, cessando di "essere" il fallo della madre, per diventare colui che "ha" il fallo; se invece l'interdizione paterna non viene riconosciuta, il bambino, oltre a rimanere identificato con il fallo e sottomesso alla madre, non ragguinge una compiuta autocostituzione della soggettività e una accesso al simbolico.
Sono anche cose utili da tenere presente per quando vi viene dato del ca**one.

domenica 7 ottobre 2007

Gli Altri

Terzo capitolo: dove al protagonista vengono pensieri paranoici che poi vanno via, lasciandolo a riflettere sulla effettiva necessità di uccidere il padre di Edipo.

Lo stratagemma del secondo bagno funziona; questa è già una notizia. La coda si è spostata in giardino e almeno in mattinata la mia casa è totalmente libera. Per di più ho costruito loro fuori un paio di tavoli ed un barbecue, così che il sovraffollamento in casa ora si presenta solamente di notte. Questo mi permette di fare dei piccoli scatti in corridoio, ballare per tutta la casa seminudo con una cassettina di Vasco nel walkman, organizzare un sistema di cartoni rossi che si muovono vicino alle finestre così da far credere agli amanuensi che la casa sia abitata da monaci buddisti o cose simili. I molesti invasori sono diventati inquietanti vicini. Posso osservarli dalle fessure delle tapparelle, posso vedere le loro grasse gamboccie muoversi pesantemente dentro i saii e le loro raggrinzite dita afferrare le erbacce dall'orticello. Hanno trovato degli attrezzi nel gabbiotto. Devo ammettere che la cosa non mi va tanto a genio. Sebbene li stiano usando solamente per migliorare l'aspetto della loro nuova sede, ora , se decidessero di attaccarmi, avrebbero anche le armi per farlo. Già li immagino fuori dalla porta del giardino con fiaccole e forconi a chiedere che il mostro eretico si allontani. Non sono mai stato accolto bene dai vari padri adottivi che mi sono via via andato a cercare nella vita, perché loro dovrebbero farlo? Sono seduti intorno alla tavola ed uno di loro sta consegnando dei pezzi di pane agli altri. Essere tra loro? Non so come sarebbe.
Ricordo però una pagina di appunti che avevo preso non tanto tempo fa mentre leggevo Una nevrosi demoniaca di Freud. Chissà che i monaci non siano qua per rispondere alla mia richiesta di allora?
Vi riporto quello che era il mio pensiero:

Lo stato di eterno lattante: quale ambizione! E quanti tentativi!

Bisognava sostituire mio padre, mortale almeno quanto quello di Edipo, con una figura più autoritaria, non so…qualcuno tipo Dio. Diventare figlio a vita di Dio, niente di più facile pensavo, non è certo personaggio poco paterno. Tuttavia più mi accostavo ai miei futuri fratelli più essi, sospettosi, mi escludevano: io non avevo la vocazione, dicevano. Puff! Comprensibile d’altronde da parte loro voler essere figli unici, avrei fatto lo stesso. Disconosciuto, però, potevo senz’altro rivolgermi al padre dei rinnegati: il diavolo. Papà Satana di certo non mi avrebbe mai abbandonato, avrebbe provveduto a me in ogni momento con gustose tentazioni a cui ovviamente non avrei saputo resistere. Perché non ci avevo pensato prima? D’altronde se dovevo ripercorrere i passi di qualcuno meglio scegliere la strada, diciamo, più divertente del peccato rispetto a quella di astinenza, sacrificio, abnegazione, rinuncia e tutte quelle cose lì che, se proprio si deve, allora vabè, altrimenti… Sarei stato così portato a soddisfare tutti i miei desideri sentendomi autorizzato dal fatto che nell’atto stava già il castigo: la sottomissione. Ne converrete con me che se babbo Lucifero mi costringe a compiere atti ignobili io sono la vittima di essi e non certo il carnefice. Il patto dell’eterno lattante, ahimé, però non credo di averlo mai portato a termine; troppe difficoltà ad utilizzare le mie nevrosi, probabilmente, o forse quella così difficile autonomia, quella conquista della vita, della donna, poi in fondo non mi dispiace tanto. In ogni caso ci sto ancora studiando su, non si sa mai che un nuovo potente papà non venga con una proposta che non posso rifiutare.

sabato 29 settembre 2007

Slow blog

Sono tutti molto simili tra loro. La lunga barba copre il mento, il largo saio non da molti indizi sulla corporatura e il cappuccio alzato nasconde capelli e fronte. Ciò che distingue un monaco dall'altro è lo sguardo. Si guardano negli occhi per riconoscersi e per comunicare. E' un linguaggio fatto di sottilissimi movimenti di pupille e palpebre che non conosco, non capisco. In quanto psicologo sono abituato a riconoscere il tono della voce, a intuire la comunicazione oltre le parole, ma non riesco proprio a comprendere cosa quegli occhi stiano cercando di dirmi. Ho la sensazione che loro sappiano benissimo di essere reali o meno e il perché sono qua, ciò che non sanno è perché io non li capisco, perché i loro occhi a me sono muti. Li osservo passeggiando per la casa. Ora non ci sono sguardi da decifrare: è notte, stanno dormendo. Ieri, sotto suggerimento di Alexy Yllich Boborsky Zumirhivonov ho costruito in giardino una latrina per i loro bisogni. Avrei voluto farla costruire a loro, forse così avrei avuto un'indicazione in più sulla loro consistenza, ma quando ne ho preso uno in disparte per comunicarglielo mi è mancata la forza. Strano a dirsi, ma ancora una volta mi sentivo sgarbato. Comunque poco male, ciò che conta è che domani mattina tutti gli amanuensi, reali o immaginari che siano, dovrebbero recarsi lì. Abbiamo almeno risolto un problema, il più urgente. Sto risalendo la piramide di Maslow.

Passeggio silenzioso tra loro, attento a non urtarli, verso la cucina; da lì, infatti, proviene il tiepido bagliore che traccia il mio sentiero. Quando giungo vedo un curvo monaco poggiato sul piano adiacente al lavabo. Sta scrivendo su una pergamena, copiando da un libro appoggiato sui fornelli. Il libro è illuminato dalla fievole luce della lampadina destinata al piano cottura, una luce tanto bassa da non disturbare minimamente i suoi compagni addormentati in cucina. Avvicinandomi mi passano per la mente immagini di Fahrenheit 451 e per un attimo sento il desiderio di accendere quei fornelli, forse solo per vedere l'effetto che farebbe sui monaci. Reagirebbero? Andrebbero su tutte le furie? O forse aprirebbero solo gli occhi per qualche istante per poi richiuderli, sereni come se niente fosse successo? Il libro in questione è una copia di La valigia di mio padre, di Orhan Pamuk. Calmo i miei istinti incendiari e decido piuttosto di prendere il mio computer e con pazienza, appoggiato sul piano dall'altra parte dei fornelli, ricopiare anche io qualche passo del saggio in questione. Mettermi nei loro panni dovrebbe aiutarmi a capirli; almeno spero.


[...] Uno scrittore è colui che passa anni alla paziente ricerca dell'essere distinto che porta dentro di sé e del mondo che lo rende la persona che è: quando parlo di scrittura, la prima cosa che mi viene in mente non è un romanzo, una poesia o la tradizione letteraria, ma è una persona che si chiude in una stanza, si siede a un tavolo e si ripiega in se stessa e tra le proprie ombre costruisce un mondo nuovo con le parole. Quest'uomo (o questa donna) può usare la macchina da scrivere, può approfittare dell'aiuto di un computer, oppure può scrivere come me, per trent'anni, con una penna stilografica e mentre scrivo può bere caffè, tè e fumare sigarette. Qualche volta può alzarsi dal tavolo e può guardare fuori, i bambini che giocano per la strada, gli alberi o un panorama, se è fortunato, oppure un muro cieco. Può scrivere poesie, drammi oppure romanzi come me. Tutte queste differenze passano in secondo piano, dopo il vero lavoro, che è quello di sedersi al tavolo e di chiudersi pazientemente in se stessi. Scrivere è trasmettere questo sguardo interiore alle parole, ricercare un nuovo mondo nella propria mente con pazienza, ostinazione e gioia. [...] Secondo me il segreto dello scrittore non sta nell'ispirazione, che arriva da fonti ignote, ma nella sua ostinazione e nella sua pazienza. “Scavare un pozzo con un ago” è un bel modo di dire turco per descrivere il lavoro dello scrittore. [...]

martedì 25 settembre 2007

Un primo approccio

Questa mattina mentre ero in coda per il bagno ho deciso di azzardare un contatto con i miei ospiti. Non so cosa mi abbia spinto; forse è stato lo sconforto quando ho visto che la coda girava anche dentro la cucina, forse la deprivazione di sonno causata dal concerto dell'orchestra russante questa notte o forse più semplicemente in quel momento mi sentivo più legato a loro. Sì, dev'essere stato questo il motivo. Quando si è in coda si è tutti amici, tutti fratelli uniti da un destino ingiusto che ha dato ad altri ciò che ha te non è concesso. "Perché quello dentro può avere water, lavandini, bidè, vasche, mentre noi qua abbiamo solo un rotolo di carta igienica ogni cinque?" chiedo alla nuca del monaco davanti a me. "Ogni cinque, amico, hai capito? Quando ci faremo sentire? Noi qua siamo tanti, lui è uno solo. Sapete cosa vi dico? E' giunto il momento che si invertano i ruoli. Lui qua fuori e noi là dentro a goderci la vescica vuota. Dico bene? Dai! Su! Dico bene?". Non ottenni risposta. Il monaco davanti a me fece un passo in avanti e quello dietro di me aspettò tranquillamente che io facessi il mio. Poi pian piano, passo dopo passo, riuscii nel primo pomeriggio ad andare in bagno. La strada riformista col tempo ha portato i suoi frutti, non lo nego, ma mi chiedo: non si poteva proprio evitare che me la facessi addosso?
Nel pomeriggio un monaco mi diede questa sua trascrizione:

Regola di S. Benedetto

Capitolo VI - L'amore del silenzio: "Facciamo come dice il profeta: "Ho detto: custodirò le mie vie per non peccare con la lingua; ho posto un freno sulla mia bocca, non ho parlato, mi sono umiliato e ho taciuto anche su cose buone". Se con queste parole egli dimostra che per amore del silenzio bisogna rinunciare anche ai discorsi buoni, quanto più è necessario troncare quelli sconvenienti in vista della pena riserbata al peccato!... Se infatti parlare e insegnare é compito del maestro, il dovere del discepolo è di tacere e ascoltare."

Temo di aver sbagliato approccio...dovrò cambiare strategia.
Si accettano suggerimenti.